Dura
la vita dei super-eroi! Finiti ormai anche i super-problemi - secondo
la formula che ha fatto la fortuna dei fumetti Marvel per decenni - il
cinema cerca di allungare l’interesse del pubblico per i suoi
blockbuster giocando su due binari, quello della tecnologia non più così
infallibile (almeno per i «buoni», che per i «cattivi» è un altro
discorso) e quello dell’autoironia, nuovo e più invincibile sistema per
incrinare le certezze super-eroiche dei suoi protagonisti.
Un
percorso che calza a meraviglia con la spocchia e la iattanza del
personaggio di Tony Stark (Robert Downey Jr.), miliardario e
fanta-scienziato troppo sicuro di sé per non dover far i conti con la
fallacia delle sue invenzioni e soprattutto con il fallimento delle sue
certezze tecnologiche. A cominciare dall’invincibilità della sua corazza
volante.
Certo, in questa terzo episodio (che però rivendica legami forti anche con The Avengers,
dove Iron Man era solo uno dei partecipanti) c’è anche il cattivo di
turno ma più che raccontare la lotta di Tony Stark/Iron Man contro il
vendicativo Mandarino (Ben Kinsley, con un naso preoccupantemente
adunco), il film costruisce il suo interesse sulla lotta che Stark deve
fare con se stesso, le sue angosce e la sua (momentanea) inefficienza
eroica.
Come spesso in questi film che devono giocare con le attese dei fan
ma anche con la loro enciclopedica preparazione, l’espediente narrativo
più usato è quello di un reboot, di una «ripartenza» che scava nel passato dell’eroe per svelarne qualche particolare poco noto. Con Iron Man 3
torniamo indietro al Capodanno 1999, quando Stark non aveva ancora il
reattore cardiaco al palladio installato nel petto e invece giocava a
fare il playboy ma non sapeva, poveretto, che la sua «preda» (Rebecca
Hall) si sarebbe in futuro rivoltata contro di lui. Anche per colpa di
un capellone sciancato (Guy Pearce) che quella stessa notte Stark
abbandonava sul tetto di un albergo, al freddo.
Quando
torniamo ai giorni nostri, Stark è diventato Iron Man, sempre
apparentemente sicuro di sé e delle sue tecnologie - un po’ meno del
rapporto con l’eterna fidanzata Pepper (Gwyneth Paltrow). Ci penseranno
le apparizioni televisive del misterioso Mandarino a scatenare le sue
insicurezze, anche perché sembra dotato di un personale esercito di
superuomini, non solo super-amati ma loro stessi dotati di strani e
misteriosi poteri.
Inizia così la lunga «odissea» erratica di Stark, catapultato lontano
da casa, senza i suoi tradizionali congegni militari, costretto a fare
amicizia con un ragazzino piuttosto sveglio ma un po’ impertinente (Ty
Simpkins), che il film racconta con un’abbondanza fin esagerata di
umorismo e scanzonata ironia.
Più che alle difficoltà di un eroe privato dei suoi poteri, per buona
parte del film assistiamo al tentativo di un (ex)eroe di arrabattarsi
alla meglio con un mondo che non sembra fatto assolutamente a misura di
eroismo. Dove hanno il loro peso l’avventura non proprio esaltante che
l’aveva visto alle prese con gli altri super-eroi in The Avengers
(di cui gli è restata un’angoscia esiziale) e la scoperta di alcuni
difettucci personali come la supponenza e la distrazione (la gag più
riuscita è lo scontro con un autotreno non visto, che manda in frantumi
l’armatura).
È
indubbiamente un modo per raccontare in maniera diversa una storia
sempre un po’ uguale a se stessa (il super-eroe vince sempre), cercando
le risate e la leggerezza della commedia. Fin troppo, verrebbe da dire,
perché questo ricorso continuo all’ironia, che non risparmia nemmeno il
personaggio del terrorista para-islamico (con una gag infantilmente
scatologica) finisce inevitabilmente per togliere tensione alla storia:
non aspettiamo con ansia quello che sta per succedere al nostro eroe ma
pregustiamo con piacere la battuta o la gag che siamo sicuri di trovare.
Un meccanismo che finisce per trasformare in barzelletta anche la parte
più seria del film, quella che alla fine di due ore di film svela
l’origine del Male (e del Cattivo) e che chiama in causa la stessa
America.
In altri film tutto sarebbe stato costruito per arrivare a questo
svelamento finale, lasciando nello spettatore il dubbio sulla veridicità
dell’ipotesi. Qui sembra l’ennesima gag usata per l’ennesimo colpo di
scena, funzionale ad alimentare quelle ipotesi complottistiche che
minano all’origine l’ipotetica credibilità del film. E ne sottolineano
la natura irrealisticamente «infantile»: un giocattolone colorato e
rumoroso, che «esplode» alla fine in un tripudio di esplosioni, scontri
ed effetti speciali, dove le bombe si confondono coi fuochi d’artificio e
un esercito di Iron Men annuncia il quarto, inevitabile sequel.
Preparatevi, gente.
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