martedì 12 dicembre 2017

Barbablù

C'era una volta un uomo che aveva case bellissime in città e in campagna, vasellame d'oro e d'argento, suppellettili ricamate e berline tutte d'oro; ma, per sua disgrazia, quest'uomo aveva la barba blu e ciò lo rendeva così brutto e spaventoso che non c'era ragazza o maritata la quale, vedendolo, non fuggisse per la paura.
Una sua vicina, dama molto distinta, aveva due figliole belle come il sole. Egli ne chiese una in matrimonio, lasciando alla madre la scelta di quella che avesse voluto dargli. Ma nessuna delle due ne voleva sapere, e se lo rimandavano l'una all'altra, non potendo risolversi a sposare un uomo il quale avesse la barba blu. Un'altra cosa poi a loro non andava proprio a genio: era ch'egli aveva già sposato parecchie donne, e nessuno sapeva che fine avessero fatto.
Barbablù, per far meglio conoscenza, le condusse, insieme alla madre, a tre o quattro delle loro migliori amiche, e ad alcuni giovanotti del vicinato, in una delle sue ville in campagna, ove rimasero per otto giorni interi. Non si fecero che passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini e merende: non si dormiva neppure più, perché si passava tutta la notte a farsi degli scherzi l'uno con l'altro; insomma, tutto andò così bene che la minore delle due sorelle cominciò a trovare che il padron di casa non aveva più la barba tanto blu, ed era in fondo una gran brava persona. Non appena furono tornati in città, il matrimonio fu concluso.
In capo a un mese, Barbablù disse a sua moglie ch'egli era costretto ad intraprendere un viaggio, di almeno sei settimane, per un affare assai importante; la pregava di stare allegra durante la sua assenza: invitasse pure le sue amiche più care, le portasse in campagna, se voleva; insomma, pensasse sempre a passarsela bene.
«Ecco qui», le disse, «le chiavi delle due grandi guardarobe; ecco quelle del vasellame d'oro e d'argento che non si adopera tutti i giorni; ecco quelle delle mie casseforti dove tengo tutto il mio denaro, quelle delle cassette dove sono i gioielli, ed ecco infine la chiave comune che serve ad aprire ogni appartamento. Quanto a questa chiavetta qui, è quella che apre lo stanzino in fondo al grande corridoio a pianterreno; aprite pure tutto, andate pure dappertutto, ma quanto allo stanzino, vi proibisco di mettervi piede, e ve lo proibisco in modo tale che, non sia mai vi entraste, dalla mia collera vi potete aspettare ogni cosa!»
Lei promette d'ubbidire scrupolosamente agli ordini avuti e lui dopo averla abbracciata, sale in carrozza e parte per il suo viaggio.
Le vicine e le amiche del cuore non aspettarono che le si mandasse a chiamare per venire a trovare la sposina, tant'erano impazienti di vedere tutte le ricchezze della casa di lei, e non avendo osato di venirvi quando c'era il marito, sempre per via di quella barba blu che tanto le spaventava. Eccole subito a correre per tutte le sale, una più bella e ricca dell'altra. Salirono poi alle guardarobe dove non avevano occhi abbastanza per ammirare la quantità e la bellezza degli arazzi, dei letti, dei divani, degli stipi, dei tavolinetti, delle tavole grandi e degli specchi, dove ci si poteva specchiare dalla punta dei piedi fino ai capelli e le cui cornici, alcune di cristallo, altre d'argento o d'argento dorato, erano le più ricche e splendide che mai si fossero vedute. Non la finivano più di portare alle stelle e invidiare la fortuna della loro amica, ma questa non provava alcun piacere nel vedere tutte quelle ricchezze, perché non vedeva l'ora d'andare ad aprire lo stanzino a pianterreno.
La curiosità la spinse a un punto che, senza considerare quanto fosse sconveniente di lasciare lì, su due piedi, le amiche, ella vi andò, scendendo per una scaletta segreta e con una precipitazione tale che, due o tre volte, fu lì lì per rompersi l'osso del collo. Giunta dinanzi alla porta dello stanzino, esitò un momento prima d'entrarci, pensando alla proibizione del marito e considerando che la propria disubbidienza avrebbe potuto attirarle qualche guaio; ma la tentazione era così forte che non poté vincerla; prese la chiavetta e aperse con mano tremante la porta dello stanzino.
Dapprincipio ella non vide nulla, perché le finestre erano chiuse; ma a poco a poco cominciò ad accorgersi che il pavimento era tutto coperto di sangue rappreso, nel quale si rispecchiavano i corpi di parecchie donne morte e appese lungo le pareti. (Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposato e che aveva sgozzato una dopo l'altra). Per poco non morì dalla paura, e la chiave dello stanzino, che ella aveva ritirato dalla serratura, le cadde di mano. Dopo essersi un tantino riavuta, raccolse la chiave, richiuse la porta e salì nella sua camera per riflettere un poco, ma non le riusciva tant'era la sua agitazione.
Essendosi accorta che la chiave dello stanzino era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte, ma il sangue non se ne andava via; allora la lavò e perfino la strofinò con la rena e col gesso: il sangue era sempre lì, perché la chiave era fatata, e non c'era mezzo di pulirla perbene: se si levava il sangue da una parte, rispuntava dall'altra.
La sera stessa Barbablù tornò dal suo viaggio; disse che per strada aveva ricevuto una lettera, dove gli si diceva che l'affare per il quale era partito, era stato già concluso in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto il possibile per dimostrargli ch'ella era felice del suo pronto ritorno.
Il dì seguente egli le chiese le chiavi, lei le consegnò, ma con una mano così tremante che lui indovinò senza fatica tutto l'accaduto.
«Come mai», le chiese, «la chiavetta dello stanzino non si trova qui, insieme alle altre?»
«Forse», lei rispose, «l'ho lasciata in camera, sul mio tavolino.»
«Non tardate a restituirmela», disse Barbablù.
Dopo qualche inutile indugio, non si poté far a meno di portare la chiave. Barbablù, dopo averla ben guardata, disse alla moglie:
«Come mai c'è del sangue su questa chiave?».
«Non ne so nulla», rispose la poverina, più pallida della morte.
«Non ne sapete nulla?», replicò Barbablù, «ma io lo so benissimo! Siete voluta entrare nello stanzino! Ebbene, signora, adesso vi tornerete e prenderete posto accanto a quelle dame che avete visto lì dentro.»
Ella si gettò ai piedi del marito piangendo e chiedendogli perdono, con tutti i segni d'un sincero pentimento per la sua disubbidienza. Bella e addolorata com'era, avrebbe intenerito un macigno; ma Barbablù aveva il cuore più duro d'un macigno.
«Bisogna morire, signora», le disse, «e senza indugi.»



«Dato che devo morire», ella rispose guardandolo con gli occhi pieni di lagrime, «datemi almeno un po' di tempo per raccomandarmi a Dio.»
«Vi accordo un mezzo quarto d'ora», rispose Barbablù, «ma non un minuto di più.»
Rimasta sola, ella chiamò sua sorella e le disse: «Anna», era questo il suo nome, «Anna, sorella mia, sali, ti prego, sali in cima alla torre per vedere se i nostri fratelli, per caso, non stiano arrivando; mi avevano promesso di venire a trovarmi quest'oggi, e se li vedi, fa' loro segno di affrettarsi».
La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera infelice le gridava di quando in quando: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».
E la sorella Anna le rispondeva: «Vedo soltanto il sole che dardeggia e l'erba che verdeggia».
Intanto Barbablù, brandendo un coltellaccio, gridava a sua moglie, con quanto fiato aveva in corpo: «Scendi giù subito, o salgo su io!».
«Ancora un momentino, per piacere», gli rispose la moglie; e, subito dopo, riprese con voce soffocata:
«Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?». E la sorella Anna rispondeva: «Vedo soltanto il sole che dardeggia e l'erba che verdeggia».
«Scendi giù subito», gridava Barbablù, «o salgo su io!»
«Adesso vengo», rispondeva la moglie; e poi gridava: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».
«Vedo...», rispondeva la sorella Anna, «vedo un gran polverone che viene da questa parte.»
«Sono i nostri fratelli?»
«Ahimè no! sorella mia! È soltanto un branco di pecore!»
«Insomma, vuoi scendere o no?», sbraitava Barbablù.
«Ancora un momento!», rispondeva la moglie; e poi gridava:
«Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».
«Vedo...», rispose la sorella, «vedo due cavalieri che vengono da questa parte, ma sono ancora molto lontani... Dio sia lodato!», esclamò un attimo dopo, «sono proprio i nostri fratelli! Faccio loro tutti i segni che posso, perché si sbrighino a venire.»
Barbablù si mise a gridare così forte da far tremare la casa. La povera donna scese giù da lui e, tutta piangente e scarmigliata, andò a gettarsi ai suoi piedi.
«Inutile far tante storie!», disse Barbablù, «dovete morire!» Poi, afferrandola con una mano per i capelli, e con l'altra brandendo in aria il coltellaccio, si accinse a tagliarle la testa. La povera donna, volgendosi verso di lui e guardandolo con lo sguardo annebbiato, lo pregò di concederle un ultimo istante per potersi raccogliere.
«No», lui disse, «e raccomandati a Dio!» Poi, alzando il braccio...
A questo punto, bussarono così forte alla porta di casa che Barbablù si fermò interdetto. Fu aperto, e subito si videro entrare due cavalieri che, sguainando la spada, si gettarono su Barbablù.
Lui riconobbe ch'erano i fratelli di sua moglie, uno dragone, l'altro moschettiere, e allora si diede a fuggire per mettersi in salvo; ma i due fratelli gli corsero dietro così lesti che lo acciuffarono prima ancora che avesse potuto raggiungere la scala. Lo passarono da parte a parte con le loro spade e lo lasciarono morto. La povera donna era anche lei quasi morta come il marito e non aveva la forza di alzarsi per abbracciare i suoi fratelli.
Si scoperse che Barbablù non aveva eredi; così la moglie diventò padrona d'ogni suo avere. Ne adoperò una parte a maritare la sorella Anna con un giovane cavaliere che l'amava da molto tempo; un'altra parte a comperare il grado di capitano ai fratelli; e il rimanente, a maritarsi con un galantuomo che le fece dimenticare i brutti giorni che aveva passati con Barbablù.



Si ringrazia per la collaborazione e lo spazio dedicato la pagina facebook  ¤ ·»Once Upon a Dream«· ¤  e il forum Mondo delle Favole

Nessun commento:

Posta un commento